Da una paura all’altra

Il termine “emergenza” si presta a svariate interpretazioni anche perché una emergenza dovrebbe essere una eccezione nella normale vita di uno stato democratico potendo prevedere la sospensione di elementari diritti.  Questa questione è nata, sostanzialmente, con le considerazioni di un giurista tedesco, Carl Schmitt, di fronte al “Decreto per la protezione del Popolo e dello Stato” che assegnava pieni poteri a Hitler e promulgato dopo l’incendio del Reichstag; incendio, che, ovviamente, non passò per la mente di Schmitt potesse essere stato appiccato proprio dal regime nazista per spianare la strada al decreto.

Un sospetto che si è riproposto negli USA con gli attentati dell’11 settembre 2001 (organizzati, verosimilmente, con la complicità di pezzi dell’apparato statale) o la successiva disseminazione di lettere contenenti spore di antrace (un’oscura faccenda conclusasi con il “suicidio del colpevole” Bruce Edwards Ivins, biologo militare); episodi che si direbbero finalizzati, oltre ad alimentare nuove guerre, come quelle all’Iraq o all’Afghanistan, a imporre negli USA un perenne stato di emergenza inaugurato con la promulgazione del Patriot Act.

Più in generale, sin dai suoi albori, questo millennio è stato caratterizzato da psicosi di massa, a parere di chi scrive, volutamente create e basate su supposte “minacce” finalizzate sostanzialmente a creare uno stato di sottomissione nella popolazione. Ci riferiamo al fantomatico “virus del millennio” (o Millennium Bug) una difettosa trascrizione nei programmi operativi dei computer che, allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 1999, avrebbe bloccato i computer di mezzo mondo trascinando l’umanità nel medioevo. Una minaccia assolutamente inconsistente, considerando che riguardava, al più, qualche vecchio computer, che certamente non gestiva reti nazionali. Ma questo non impedì a Tony Blair, allora primo ministro del Regno unito, di andare in TV per annunciare l’Operation Survey per la sorveglianza militare e poliziesca del Regno Unito (soprattutto durante la notte tra il 31 dicembre e il primo gennaio) e chiedere, drammaticamente, ai connazionali di fare incetta di generi di prima necessità per prepararsi al dopo Millennium Bug. Scongiurato il “pericolo Millennium Bug”, (attestato da “esperti” disposti a attestare qualsiasi cosa), Blair riuscì ad ammantarsi del ruolo di “Salvatore della Patria” (e garantirsi, così, altri sette anni da Primo ministro) mentre negli Usa la vendita di armi da fuoco, in nome della fantomatica” emergenza” era aumentata del 15% e Bill Gates invitava il mondo a “non abbassare la guardia” riguardo a future emergenze come il Millennium Bug.

Nel 2001 è il turno della “Mucca Pazza”, una psicosi di massa istituzionalizzata dalle dichiarazioni di Neil Ferguson, Epidemiologo Capo all’Imperial College di Londra, secondo il quale 150.000 persone sarebbero ben presto morte in Europa avendo mangiato carne bovina. Sempre in quell’anno, la bufala del bioterrorismo che, tra l’altro ha portato alla vaccinazione antivaiolosa obbligatoria negli Usa per alcune categorie.

Nel 2002 è il turno della SARS, una epidemia che ancora oggi viene ricordata come una catastrofe nonostante abbia fatto – in tutto il mondo, in due anni – appena 774 morti. Nel 2009 è il turno della famigerata influenza “suina”, una delle tante epidemie influenzali ma che, enfatizzata dai media, spinse – l’11 giugno 2009, mentre l’epidemia già si stava spegnendo – l’OMS a proclamare (per la prima volta nella sua storia) lo “Stato di pandemia” trasformando in obbligo di acquisto i contratti per la fornitura di vaccini che i vari governi, tra i quali quello italiano, avevano sottoscritto con le case farmaceutiche. Nel 2014 è il turno del morbillo: una fantomatica “minaccia” attestata dalla ministra alla Salute, Beatrice Lorenzin, la quale in TV dichiarava che nel 2013 erano “morti in Gran Bretagna 270 bambini per morbillo” (una colossale fake news: nel 2013 in Gran Bretagna è morto di morbillo solo un venticinquenne già affetto da gravi patologie).

A queste, indotte, psicosi di massa sono da aggiungere le periodiche enfatizzazioni sui media di altre tenebrose minacce biologiche quali: legionella, meningite, virus Ebola, batterio killer dei cetrioli, influenza aviaria… Il perché può essere spiegato con l’esigenza dei media – oggi più che mai attanagliati dal calo di vendite – di garantirsi un’audience. E la paura è il metodo più rapido per ottenerla. Quella per l’epidemia ha, inoltre, la possibilità di avere sempre l’avallo della “scienza”.

Ad esempio, solitamente, per avere dall’Esperto di Turno la certificazione di un’incombente e catastrofica epidemia, la classica domanda che pone il giornalista è: «Ma lei se la sentirebbe di escludere completamente l’eventualità di una catastrofica epidemia?».  Va da sé che l’Esperto di Turno ci pensa due volte prima di rispondere con un inequivocabile «Sì. Lo escludo.» Intanto, (soprattutto se è un ricercatore in carriera) perché rischia di precludersi un qualche finanziamento alle proprie ricerche, che potrebbe scaturire proprio dal generale allarmismo. E poi, meglio tenerseli buoni i media che possono garantirgli una visibilità. L’Esperto di Turno, allora, si rifugerà nel vago, con dichiarazioni che non escludono nulla (se è un virologo, accennerà alla possibile mutazione del virus) e che, in molti casi, si traducono in titoli quali «L’Esperto Tal dei Tali: niente panico, ma potrebbe essere una catastrofe.» Il tutto, ovviamente, incorniciato da immagini dell’epidemia “Spagnola” del 1918 o della peste del 1347.

Perché tante campagne allarmistiche? In alcuni casi, queste parrebbero finalizzate al business di aziende produttrici di farmaci e vaccini; in altri casi, le motivazioni potrebbero essere altre. C’è chi, ad esempio il sociologo Zygmunt Bauman , le legge finalizzate a creare un asservimento psicologico e quindi politico. Così la gente dà carta bianca a scienziati, governanti, militari, forze dell’ordine e finisce per accettare con gratitudine misure che il Potere aveva pianificato da tempo per tutti altri scopi. E così, alla fine della cosiddetta emergenza, la gente finirà per ringraziare le autorità per il solo fatto di essere ancora viva.


SOCIAL

Per meglio capire come oggi il Disaster Management si serva soprattutto della paura per imporre alla gente le sue direttive è necessario accennare alla trasformazione delle strutture di consenso e di informazione che il Potere in Occidente (soprattutto in Europa)  ha assunto dal 1989, data del crollo del Muro di Berlino e, quindi dell’impero sovietico. Scomparsi o fatti scomparire i partiti politici che potevano costituire un intralcio e considerato che l’informazione mainstream (quella cartacea in profonda crisi di vendite, quella TV seguita, prevalentemente, da persone anziane e, quindi, difficilmente mobilitabili)  ci si è affidati, sostanzialmente a tre  risorse: gli “influencer” (solitamente creati a tavolino da qualche agenzia di pubbliche relazioni),  le ONG  al soldo di “filantropi”) e i social.

Come attestato da un inappuntabile documentario , oggi i social (in primis, Facebook: 2.8 miliardi di utenti attivi mensili) conoscono, non solo le nostre attitudini all’acquisto o le nostre opinioni, ma anche la nostra reattività a determinati stimoli; reattività che viene periodicamente testata da “trolls” (e cioè identità digitali fittizie) i quali ci comunicano controverse notizie o opinioni suscitando in noi o disinteresse o reazioni che spaziano dall’intavolare una civile discussione fino alla rabbia o all’odio. Finiamo, quindi per essere “targhettizzati” e tramite algoritmi inseriti in categorie che vengono messe a disposizione di agenzie di pubbliche relazioni, spin doctors, istituzioni…Documenti del Congresso Usa attestano che l’analisi di questa reattività (che può essere anche la disponibilità a mobilitarsi per qualche causa) ha permesso di identificare precisi “target” con i quali alimentare “rivoluzioni colorate” in Egitto e in Siria.

Già nel 2007, il Dipartimento della Difesa USA, basandosi sul memorandum dell’8 giugno 2007 “Interactive Internet Activities” aveva appaltato ad aziende private l’acquisizione di dati e manipolazione delle informazioni in Rete, finalizzati anche a far scoppiare rivolte, ovviamente in paesi stranieri. Nel marzo del 2008, comunque, emendando il Foreign Intelligence Surveillance Act del 1978, si permetteva alla Section702 della National Security Agency di condurre “un’azione su larga scala di attività di sorveglianza, raccogliendo informazioni sulle comunicazioni tra persone negli Stati Uniti e persone che si trovano all’estero, con poca sorveglianza giudiziaria”. Ancora peggio veniva fatto dall’amministrazione Obama che nel 2012, aggiornando lo Smith-Mundt Act del 1948, autorizzava le agenzie di intelligence USA e società private ad esse collegate ad operare, anche attraverso i social, all’interno degli Stati Uniti.  Si sarebbero così sviluppate le cosiddette “Interactive Internet Activities” che avrebbero eterodiretto le “rivolte antirazziste” (in realtà rivolte solo contro l’amministrazione Trump) del 2020 scoppiate negli USA caratterizzate da elementi davvero sospetti: l’immediato attivarsi di silenti profili social che, subito dopo l’uccisione di Floyd, diramavano migliaia di messaggi; poliziotti, inerti davanti a saccheggi e incendi, che si inginocchiavano davanti ai manifestanti; esponenti dell’establishment che dichiaravano “zone liberate” quartieri devastati da manifestanti…

Fantapolitica? Di certo la cosiddetta Cognitive Warfare (termine malamente traducibile come “guerra cognitiva”) e, cioè l’hacking dell’individuo al fine di implementare progetti di ingegneria sociale, viene oggi pubblicamente teorizzata in uno studio  del 2020, di un think tank sponsorizzato dalla NATO dove teorizzando la militarizzazione delle neuroscienze, si prevede di “armare” la popolazione attraverso la rete.

Prima di andare avanti, una considerazione. A rigor di logica, le rivolte, verosimilmente eterodirette negli Usa, non dovrebbero avere nulla a che fare con il Disaster management in quanto ad innescarle non è stato un disastro ma un omicidio, quello di George Floyd. Omicidio, comunque, che incomprensibilmente (considerando, ad esempio, la solerzia di social come Youtube nel cancellare scene di violenza) tradottosi in dettagliati video dilagati sulla Rete è servito a suscitare l’identico allarme che determina la percezione di un disastro. Perché di questo si tratta: oggi a plasmare le menti non è più l’esperienza diretta come avveniva fino agli inizi del secolo scorso ma quello che ci viene imposto dai media. E le conseguenze possono essere terribili: «Gli impulsi primitivi, selvaggi e malvagi dell’umanità non sono affatto scomparsi, ma continuano a vivere, seppure rimossi, nell’inconscio di ogni singolo individuo […], aspettando l’occasione di potersi riattivare» attestava Freud  dopo il massacro della Prima guerra mondiale: milioni di persone che, “riattivate” dalla propaganda, hanno ucciso e sono state uccise.

I social, nel “bene” e nel “male” hanno avuto un ruolo chiave nella gestione di alcune emergenze verificatesi negli ultimi decenni quali calamità naturali, guerre “rivoluzioni colorate”…  Anche epidemie come il Covid? Lo suggerivo nella prima edizione di questo libro Ma, in mancanza di indizi sufficienti, la possibilità che, ai suoi inizi, l’allarme Covid sia stato una operazione di Disaster management innescata dalle autorità cinesi restava una mera congettura che, comunque, poteva, spiegare evidenti illogicità. Ora grazie all’analisi dei flussi di post sui social e dei rapporti tra OMS e Cina , se non proprio “prove” ci sono elementi che irrobustiscono la veridicità di questa mia ipotesi. Ma prima di soffermarci sul come questa operazione di Disaster management abbia trovato come inconsapevole attore il governo italiano, un cenno su come la percezione di una catastrofe imminente sia stata trasmessa attraverso i social.

L’information warfare, in particolare l’utilizzo dei social al fine di intossicare o orientare l’opinione pubblica di un paese nemico è una disciplina che sta conoscendo un vertiginoso sviluppo in moltissimi paesi; soprattutto negli USA dove impegna, ormai, innumerevoli analisti in vulnerabilità sociale. Per quanto riguarda la Cina, al di là delle periodiche, quanto indimostrate, accuse di essere la patria di tenebrosi e onnipotenti hacker, la sua capacità di influenzare l’opinione pubblica occidentale o di reagire a campagne mediatiche ostili si direbbe inesistente considerando che, ancora oggi dalla Cina, social come Facebook, Twitter, Instagram… sono impossibili da raggiungere mentre in Occidente l’unico social cinese che può essere raggiunto è TikTok. Nonostante ciò l’emergenza Covid, sin dai suoi esordi, a livello planetario è stata egemonizzata da una martellante campagna condotta sui social da sedicenti utenti cinesi; situazione che, ad esempio, aveva spinto il Dipartimento di Stato a chiedere, nel marzo 2020, a Twitter la cancellazione di ben 250.000 account (secondo gli USA, trolls acquistati in India dalle autorità cinesi).

Questa campagna mediatica, analizzata da Michael P. Senger , nella prima fase si soffermava, soprattutto, sulla sorte toccata al medico Li Wenliang (“colpevole” di aver per prima segnalato il pericolo Sars-Cov-2 e per questo imprigionato dalle autorità cinesi) e sulla denuncia della brutalità della polizia cinese verso coloro che non rispettavano le regole profilattiche: un escamotage verosimilmente finalizzato ad allontanare i sospetti che la campagna allarmistica sull’emergenza Covid potesse essere organizzata dalle autorità cinesi.

La seconda fase della campagna mediatica si è concentrata su quanto avveniva in una spettrale Wuhan sottoposta a quarantena con video fatti “trapelare” che mostravano agghiaccianti, quanto inverosimili, “scene dell’epidemia”, ad esempio persone che, misteriosamente, crollavano per strada o vomitavano sangue; video inizialmente diffusi da social e successivamente dai media mainstream. Contemporaneamente, in Occidente, ogni critica espressa alla gestione dell’emergenza in Cina veniva sommersa sui social da infamanti accuse mentre l’elogio dell’OMS verso la scelta fatta dalla Cina per molti giorni è stato negli USA l’hashtag più popolare su Twitter. Altrettanto clamoroso quello successo in Italia, dall’11 al 23 marzo 2020, con il dilagare di hashtag quali #forzacinaeItalia e #grazieCina, nel 46% dei casi provenienti da identità fittizie.

Le autorità cinesi, comunque, non sono state le sole a plasmare l’emergenza Covid per realizzare i loro progetti politici. Ne parleremo diffusamente più avanti. Ma, intanto, poniamoci una domanda: perché mai le autorità cinesi avrebbero innescato l’emergenza Covid.?

Con assoluta certezza, oggi, sappiano che il virus Sars-Cov-2 infetta gli esseri umani in Italia almeno dall’estate 2019, come attestato da anticorpi a questo virus trovati, in quella data, in molte persone sottoposte a screening dall’Istituto dei tumori di Milano. Verosimilmente, a questo virus è da addebitare la grave epidemia di “polmoniti” e “influenza” che nell’autunno 2019 si è manifestata in Italia e che se non ha provocato l’ecatombe del marzo-aprile 2020 è solo perché nel 2019, funzionando la medicina domiciliare e territoriale, i malati di Covid non venivano mandati a morire in ospedali diventati lazzaretti.  Nonostante ciò, persiste la leggenda di un virus enormemente letale, sorto in Cina nell’ottobre 2019.

A tal riguardo, va detto che il virus Sars-Cov-2 responsabile del Covid è estremamente contagioso (anche perché, essendo asintomatico nel 90% dei casi, permette alla ignara persona infetta di andare in giro disseminando l’infezione) ma non è certo più letale di tanti virus “normalmente” in circolazione e che non suscitano particolari apprensioni. Questo virus cominciò a conoscere una sinistra popolarità per l’allarme, diramato dalle autorità cinesi il 31 dicembre 2019, di un nuovo, pericoloso, virus diffusosi, a loro dire, da un mercato di animali di Whuhan. Allarme per fronteggiare il quale le autorità cinesi hanno imposto, il 23 gennaio 2020, un cordone sanitario di due mesi nel distretto di Wuhan-Hubei (58 milioni di persone), la realizzazione in tempi record di ben 6 ospedali da 1500 posti l’uno e blande misure profilattiche nel resto della Cina (basti dire che, a parte la tratta da e per Whuhan, non furono mai sospesi i voli aerei). Grazie a queste misure, la Cina (1,393 miliardi di abitanti) avrebbe avuto, in un anno, appena 4.636 decessi per Covid. Al di là dell’inverosimile cifra dei decessi per una epidemia affrontata con un cordone sanitario realizzato due mesi dopo i primi casi, vi è un’altra questione sulla quale è il caso di riflettere: perché le autorità cinesi hanno realizzato queste spettacolari misure per un virus che, già ai suoi esordi, rivelava un basso tasso di letalità? Sono possibili, quindi, letture diverse sul perché di queste misure?

La prima è che le autorità cinesi le avrebbero attuate, sostanzialmente, per rispondere alla ennesima campagna mediatica sul “virus cinese” (nata negli USA, si badi bene, già nell’autunno 2019) per supportare i dazi e le sanzioni alla Cina annunciate da Trump. Del resto in Occidente, le campagne mediatiche su minacce biologiche provenienti dalla Cina – spesso basate sull’”innata sporcizia dei Cinesi” – non erano una novità. Basti pensare a quelle inerenti la SARS del 2002 o l’influenza aviaria A H5N1 del 2005 per le quali le autorità di Pechino sono state messe, per anni, sotto accusa dai media occidentali per la loro supposta inerzia. In tal senso la spettacolare risposta della Cina sarebbe stata una operazione meramente mediatica finalizzata ad enfatizzare, oltre al livello tecnologico e organizzativo raggiunto, l’efficacia del Programma per il miglioramento della Sanità cominciato nel 2003.

Un’altra lettura, che non esclude la prima, evidenzia che il Wuhan-Hubei è il principale distretto manifatturiero dove attingono le aziende occidentali, soprattutto quelle automobilistiche. Il blocco della produzione conseguente al lockdown in questo distretto, quindi, stava strangolando molte aziende occidentali e innescando un rovinoso effetto a cascata. In tal senso, il lockdown imposto dalle autorità cinesi può essere letto come una sorta di avvertimento ai paesi occidentali e a tal riguardo non ci sembra un caso che, quando cominciò nel Wuhan-Hubei il lockdown, paradossalmente, negli USA sui media scomparvero o si ridimensionarono i timori di minacce biologiche provenienti dalla Cina cominciati mesi prima, mentre  il Governo Usa – verosimilmente, fiutando la trappola, rifiutava  i tamponi diagnostici messi a disposizione dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e cercava di mettere il bavaglio a suoi ricercatori (primo tra tutti Antony Fauci) che paventavano una imminente e catastrofica epidemia proveniente dalla Cina .

 Un’altra motivazione che potrebbe aver spinto le autorità cinesi ad imporre il lockdown era spegnere gli scioperi che avevano scosso proprio lo Wuhan-Hubei nel 2019 e le proteste ad Hong-Kong, dove le “misure profilattiche” si sono tradotte in una militarizzazione. Ad integrare questa lettura meramente politica, una ipotesi che, certamente sarà, da alcuni, tacciata di “complottismo” ma che riteniamo verosimile. E cioè che le immagini, che troneggiavano sulle TV di tutto il mondo, di un lockdown mai visto prima e della frenetica costruzione di sei ospedali servissero sostanzialmente a presentare quella che era una epidemia non più grave di tante altre, come una spaventosa catastrofe che, considerata la contagiosità del virus, ben presto sarebbe stata percepita in Occidente. Qui l’immancabile enfatizzazione del pericolo – grazie alle misure che venivano prese in Cina – e la clamorosa vulnerabilità delle società occidentali a minacce biologiche – avrebbe gettato nel panico la popolazione e fatto crollare la produzione. Così è stato, e nel 2021 la Cina, dopo avere annunciato di avere “eradicato il virus” grazie alla vaccinazione e i lockdown, registrava un tasso di crescita economico superiore a quello del 2019 mentre i paesi occidentali registravano un crollo del PIL del 4%, (l’Italia dell’8,9%). 

Nel 2022, colpo di scena: ritorna in Cina l’emergenza Covid. A gennaio per una “ripresa del contagio da Sars Cov 2” (e nessun morto per Covid) nello Hebei (la provincia che circonda Pechino) vengono messi in quarantena 20 milioni di persone. A Shangai , in aprile, per ben “tre morti per Covid” (tre diabetici, due di 89 e una di 91 anni) 28 milioni di persone vengono chiusi in casa per settimane mentre 26.000 “positivi al virus” (quasi tutti asintomatici) vengono trascinati in veri e propri lazzaretti. Si direbbe il fallimento della vaccinazione di massa (in Cina risulta vaccinata completamente contro il Covid l’89% di tutta la popolazione: 1,26 miliardi di persone) e la follia della strategia “Zero Covid” (per un virus, in ogni caso, destinato a restare endemico per decenni) ma i media occidentali preferiscono soffermarsi sulla brutalità di quanto sta succedendo in Cina con persone risultate “positive” strappate dalle loro case, i loro animali domestici uccisi, controlli ferrei della polizia in ogni dove con conseguenti arresti. Perché queste insensate misure da parte delle autorità cinesi? Forse è un assist alle richieste di ferrei lockdown espresse negli ultimi tempi dai più autorevoli organi di stampa della finanza mondiale? 

Testo tratto dal libro “Disaster management – Come salvare o distruggere una società

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